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http://hdl.handle.net/11393/185223Abstract
Quelli di Hannah Arendt e Primo Levi rappresentano pensieri e narrazioni contigui, che intessono un insieme di rimandi tematici con i quali oggi si può tentare di misurare la realtà e mettere in prospettiva un secolo breve e armato come il Novecento. L’analisi congiunta di alcune delle loro opere consente un confronto tra interpretazioni di avvenimenti che, nella loro opacità, non hanno cessato di interrogarci. Tra le molte tracce che il fecondo incrocio tra i due chiama ad approfondire, la riflessione sulla morale a partire dall’esperienza terminale dei Lager nazisti sembra tratteggiare una microfisica del male che questiona tanto l’antropologia quanto il pensiero politico. Arendt e Levi, in qualità di testimoni e narratori dell’estremo, hanno contribuito a dare un forte impulso alla progressiva decostruzione di una concezione demonologica di male e potere considerati quali essenze (entità fissate al di fuori delle relazioni individuali), gettando le basi per un ripensamento della complessa antropologia umana a partire dall’intreccio tra desiderio di sopravvivenza e strategie di obbedienza. Entrambi, con tempi e strumenti differenti, hanno messo a punto una riflessione sulla “normalità del male” rimarcandone il cambiamento di stato: se per Arendt il male si desostanzializza in un batterio che resta in superficie inibendo al pensiero i fondali, per Levi questo virus contamina gli ambienti.Date
2013Type
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oai:u-pad.unimc.it:11393/185223http://hdl.handle.net/11393/185223